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GIORNALISMO

Scalfari, la politica e gli italiani: "Da noi la democrazia è fragile"

in "Il Gazzettino", n. 140, 14 giugno 2009, p. 20.

Venezia
Definire Eugenio Scalfari una pagina storica del giornalismo italiano è sicuramente riduttivo, perché con il suo “pensiero forte” analizza e giudica senza sosta il presente più vicino, nel quale dibattiti un tempo cruciali come laicità e religione, morale e ragione politica, sono oggi poco – o male – frequentati. La presentazione del suo ultimo libro “L’uomo che non credeva in Dio” (Einaudi), promossa venerdì dall’Ordine dei giornalisti del Veneto in una gremita aula magna dell’Ateneo Veneto, a conclusione del ciclo di incontri “In punta di penna”, si è trasformata così in una conversazione a tutto campo sull’uomo Scalfari, per il quale giornalismo è soprattutto espressione del proprio pensiero intellettuale.
Punti cardine di un incessante percorso che inizia nel lontano 1949 con il “Mondo” di Pannunzio, poi con l’Espresso nel 1955, quindi con la fatidica data del 1976, fondazione de La Repubblica, sono stati tracciati da Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto, mentre l’avvocato Alfredo Bianchini e il senatore Luigi Zanda si sono trattenuti con sottigliezza su stile e complessità del volume. Del quale Scalfari spiega innanzitutto il titolo, a partire dal verbo all’imperfetto: “L’ho utilizzato per creare un senso narrativo, del racconto, una ricerca compiuta sul mio Io”. Sulla finitezza del quale si sofferma: “Abbiamo dato a Dio gli attributi che noi non abbiamo, come la desiderata onniscienza”.
La parte più attesa dall’attento pubblico (che al suo ingresso non aveva trattenuto un’ovazione) è quella relativa all’analisi politica contemporanea, propria dello Scalfari “giornalista”: “Ho ricercato la borghesia illuminata, e non l’ho trovata; credevo di aver trovato una classe operaia consapevole dei suoi diritti, ma oggi vota per la Lega…” Non poteva mancare una riflessione sul “berlusconismo”, “che è un effetto, non la causa, quella siamo noi”. Rileva una costante invariata nell’italiano “furbo”, che non ha tempo per il bene comune e (pericolosamente) lo delega; parla della distruzione dei ruoli nel Sessantotto, che ha contribuito ad un mutamento antropologico, riflesso nella famiglia, e soprattutto nel valore attribuito alla memoria: non a caso l’odierna precarietà, anche lavorativa, porta a concentrarsi non sul futuro, ma sul presente, portando alla riscoperta di una “innocenza” sopita che, però, connota anche la continua percezione di vivere nel presente del mondo animale.
Ancora: “Da noi la democrazia è fragile, ma la gravità è che fatti di oggettiva percezione non suscitano reazioni”. L’affondo al giornalismo italiano, e in particolare ai quotidiani (“eccetto uno”, ha ironicamente commentato, con allusione ovvia al “suo” La Repubblica): “Sono riportate le notizie, ma non i commenti… a quelli ci pensa la stampa internazionale, anche conservatrice!” Sulla crisi del settore: “Un conto è quella inevitabile dei giornali nell’era di Internet, ad esempio il sito de La Repubblica cattura la metà dei lettori totali della testata, altro è quella evidente del giornalismo”. Conclusione di lapidaria amarezza sull’oggi: “Stringere i denti e resistere, siamo al punto di legarci all’albero di maestra per non cadere in mare”.

Riccardo Petito