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CINEMA
"Dorian Gray". Troppe licenze e atmosfere patinate, abisso tra romanzo e pellicola Carte Scoperte, n. 05, dicembre 2009, p. 28.
Pochi giorni fa, in occasione di una ricerca presentata a Roma alla Fiera nazionale della piccola e media editoria, era uscita una notizia relativa al mondo del cinema: sempre più spesso la ricetta per realizzare un film di successo viene individuata in una sceneggiatura ispirata ad un libro di successo. Il vantaggio, la notorietà di una già “collaudata” trama; in alcuni casi però è evidente il possibile handicap: il paragone tra pellicola e testo può rivelarsi imbarazzante. Un esempio il recente "Dorian Gray", liberamente tratto dal celeberrimo romanzo di Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray”. Forte del "liberamente", il regista Oliver Parker, non nuovo all'immaginario vittoriano dello scrittore irlandese (si era già cimentato con trasposizioni delle commedie "Un marito ideale" e "L´importanza di chiamarsi Ernest"), si concede licenze al limite dell´assurdo. Il protagonista, interpretato dal bel tenebroso – ma dal dubbio carisma - Ben Barnes, pare uscito da atmosfere gotico decadenti di pellicole quali "Il Corvo" o, peggio, sconfina in alcune soluzioni sceniche alla "Harry Potter". Incredibilmente, nel finale, compare in scena anche la figlia di Lord Henry (interpretato dal bravo Colin Firth, fresco Leone d´Oro a Venezia). Dell´incredibile cultura e sottigliezza di cui Wilde farcisce il suo capolavoro non trapela nulla: un esempio, tutta la parte dedicata nel romanzo alla fascinazione estetizzante di Dorian per il simbolismo religioso e la pratica della liturgia cattolica, viene riassunta nell'atto di confessarsi al sacerdote. |