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INTERVISTE

Erri De Luca. Il ritorno degli animali selvatici

in "Il Gazzettino", 15 agosto 2010, p. 22.

Venezia
Il tema della natura e del rapporto che la lega all'uomo è parte fondativa della narrativa di Erri De Luca, scrittore partenopeo oggi residente nella campagna romana, in una abitazione da lui costruita sui resti di una stalla da buoi. Il tema della montagna in particolare (fra le cime De Luca, esperto scalatore, passerà parte dell'estate), ricopre le pagine della sua ultima fatica edita da Feltrinelli, “Il peso della farfalla”, dove si assiste ad un complesso duello tra “il re dei camosci” e un bracconiere.
Abbiamo chiesto a lui qualche parere sul fenomeno del ripopolamento di animali selvatici nelle città, del ritorno di specie scomparse da secoli dalle nostre montagne, dell'avanzamento dei boschi nei campi abbandonati dall'uomo.
«Si tratta di una nostra nostalgia, questi animali hanno infatti poca possibilità di trovare un ambiente a loro sufficiente - è la sua risposta - Sapere che ci sono trentacinque orsi nel Trentino fa bene alla nostra idea di natura, all'immagine che abbiamo della montagna, ma si tratta di rappresentanze ridotte al minimo, ambasciatori di specie che non abitano più tra noi».

Si può dire dunque che aiutare il ripopolamento sia anche un modo, per l'uomo, di lavarsi la coscienza?

«Non lo so se riguarda la coscienza, riguarda semmai la nostra idea di noi stessi come “inquilini preponderanti”, che hanno occupato tutto l'ambiente e riservano alle altre specie solo delle nicchie di sopravvivenza. Dove ci siamo noi smette la natura, retrocede. Le montagne sono ancora luoghi dove siamo meno presenti, e questo permette di mantenere un po' di continuità».

Non si può quindi parlare di natura che si riprende i suoi spazi?

«No, assolutamente, sono solo delle piccole concessioni assistite».

Fra posizioni estreme, ad esempio i disboscamenti per creare campi da golf, oppure il permettere che la natura mantenga il suo pieno sviluppo, lei dove si colloca?

«Da osservatore. Disboschiamo per fare campi da golf, e poi in alta quota le malghe abbandonate vengono riassorbite da boschi che si reimpiantano su spazi una volta utilizzati. È una questione di nostri “bordi”: dove noi arriviamo cancelliamo, e quando facciamo un passo indietro la natura si riappropria dei suoi spazi. La natura è più forte di noi, noi siamo solo di passaggio».

Anche nelle città si assiste a qualche ritorno, ricompaiono ad esempio alcune specie di uccelli...

«Succede che riescano ad adattarsi al nostro ambiente, in maniera parassitaria, che i gabbiani si moltiplichino sopra le discariche, invece di andare a pescare finiscono per rosicchiare avanzi. È un fenomeno che dimostra come nei nostri scarti ci sia spazio per un habitat parassitario».

La sua visione può essere considerata un po' pessimista?

«No, semplicemente noi non siamo compatibili con l'ambiente, siamo degli occupatori dell'ambiente, dove ci siamo noi l'ambiente cessa».

Qual è la sua posizione nei confronti della caccia?

«Oggi è uno sfogo di cartucce. La specie umana è una specie che si è guadagnata la sopravvivenza e il cibo cacciando, ma oggi non è più così: chi va a caccia lo fa come “tiro a segno”, non per procacciarsi il necessario. Uno sport, un tiro a segno su bestie semi-domestiche».

Riccardo Petito